Ciechi dinanzi ai presagi

Il 57° Rapporto Censis sulla situazione sociale del Paese, edito a Roma per Franco Angeli il 1° dicembre 2023, titola cosi’ il primo capitolo della sua analisi dell’Italia per quest’anno.

Il Rapporto, riepilogo di osservatori e studi su economia, lavoro, welfare, sanità, cultura che anno per anno vengono aggiornati dal centro di ricerca fondato da Giuseppe De Rita, tenta ogni anno di dare un quadro sintetica della modalità con cui opinione pubblica e istituzioni guardano – e agiscono – per la soluzione dei problemi del Paese.

“Risulta ormai evidente che numerosi processi economici e sociali sono attualmente “rimossi” dall’agenda collettiva nazionale, o comunque gravemente sottovalutati.” Il Censis afferma quindi che l’Italia si troverebbe, attualmente, in “una sorta di torpore, un sonno profondo del calcolo raziocinante”, che viceversa servirebbe per affrontare prontamente dinamiche strutturali ormai mature, di lungo periodo, dagli effetti potenzialmente funesti. In realtà, il biennio post-pandemia, 2022-2023, è stato caratterizzato da una impetuosa crescita economica, generata principalmente dall’esplosione di liquidità immessa nel sistema dalle Banche Centrali, e moltiplicata da tassi di interesse negativi sui prestiti bancari, con la finalità di evitare gli inevitabili traumi collegati all’interruzione delle catene di distribuzione globali, provocati dall’epidemia COVID 19.
E la fase di sviluppo avrebbe avuto sicura e rapida prosecuzione, dopo una crescita del PIL dell’8,3% nel 2021 e del 3,7% nel 2022, se il conflitto Russo-Ucraino non fosse esploso nel febbraio 2022, scatenando quello che gli economisti usualmente chiamano “shock esogeno”: un aumento improvviso, impulsivo e drammatico del costo dell’energia, per motivi principalmente slegati dal mercato, e che quindi non si è risolto tramite i prezzi, impennatisi a seguito delle sanzioni verso la Federazione Russa e l’esplosione dei gasdotti Northstream 1 e 2 ad opera degli ucraini, ma ha richiesto un tempestivo intervento infrastrutturale in tutta Europa, con diversificazione degli approvvigionamenti, allestimento di terminali gasieri, e una repentina accelerazione di intervento per le rinnovabili, con l’obbiettivo di ristabilire principi di autonomia energetica e calmieramento dei mercati, conseguenze immediatamente evidenti nell’autunno 2023, in seguito all’aumento dei tassi di interesse e la decelerazione dell’area Euro. Il PIL italiano nel 2023 chiude a +0,6% in linea con l’area euro, mentre la Germania segna -0,8%.
La manovra delle Banche Centrali sui tassi, che in due anni ha portato i tassi di interesse pagati sui prestiti al 4,75% ha inciso, tramite il rallentamento delle economie, sull’inflazione. L’Indice Generale dei Prezzi, cresciuto dell’8,9% nel 2022, del 5,4% nel 2023  in media d’anno, e – in previsione – del 2,5% nel 2024, ha reso evidente il rallentamento e – con esso – ha aperto la strada ad una inversione di marcia della BCE che fa prevere almeno una o due riduzioni nel corso del 2024, con una aspettativa generale di ripresa del ciclo economico.
A questo nefasto “evento” della guerra ai confini orientali, costato all’Europa e ai paesi importatori di petrolio e gas finora diverse centinaia di miliardi di euro per maggiori costi dell’energia, nell’ottobre 2023 si è aggiunta la guerra fratricida tra Hamas e Israele, un ulteriore fronte pericoloso, oltre che per le stragi di civili, anche per i prezzi internazionali a causa dell’incombente “blocco” del Mar Rosso da parte dei paesi sciiti alleati dell’Iran.
Sul piano economico, produce effetti significativi anche la ”guerra delle sanzioni” in atto contro la Russia, e piu’ sottilmente ma non meno efficacemente contro la Cina (per le minacce contro Taiwan, per le quali viene boicottata su esportazioni, tecnologie, sviluppo industriale e commercio internazionale) che – a causa dell’allineamento consistente di Brasile, Russia, Cina, Sudafrica nei confronti degli USA, e della sostanziale neutralità dell’India – provoca uno stallo della crescita globale.
Gli Stati Uniti sono risultati i meno danneggiati da questa situazione, in quanto, con lungimiranza non proprio amica dell’ambiente, negli ultimi vent’anni hanno perseguito l’autonomia energetica attraverso la coltivazione degli scisti profondi e spingono ora sulle energie rinnovabili, incluso il nucleare.
Se si aggiungono, a questo scenario, le ormai ricorrenti e crescenti crisi locali generate da estremi climatici, con siccità, incendi e uragani che moltiplicano i danni catastrofali al punto da indurre i Governi a varare misure obbligatorie di assicurazione per le aziende, e valutare per i prossimi anni grandi opere infrastrutturali per acqua, energia e mobilità, allora il panorama risulta articolato e complesso, spesso di difficile interpretazione, e comunque tale da generare instabilità, discontinuità, incertezze.
Il mondo politico ed economico è ormai “divergente” e “multipolare”, caratterizzato da una crescente domanda di indipendenza e autonomia proveniente da Asia, Africa, Medio Oriente, che vede gli Stati Uniti come vincolo alla propria autonomia, e contemporaneamente si appoggia a potenze locali (Turchia, Arabia Saudita, Cina, India) che mai hanno dato riscontro di responsabilità collettiva o anche solo, semplicemente, di disponibilità verso gli altri paesi. La multipolarità aumenta, sia sotto il profilo del consumo e del reddito, che sotto il profilo demografico, con alcune nuove grandi “sorprese” di fronte, tra cui India, Pakistan,  Cina, Indonesia, Nigeria, paesi con popolazioni giovani e crescenti che intendono ipotecare le risorse del futuro senza rinunciare ad alcuna opportunità di accrescere produzioni ambientalmente rischiose, manifatture di sfruttamento, consumo indiscriminato di ambiente e risorse, anche impiegando i combustibili fossili e i consumi di massa prima riservati al miliardo di cittadini del “primo mondo”, ed ora divenuti appannaggio di una larga parte di popolazione globale: i consumatori di massa sono passati, infatti, da un miliardo nel 2000 a oltre 4 miliardi nel 2023, quadruplicando il numero dei consumatori “medi” con redditi disponibili tra i 10.000 e i 30.000 dollari annui. Ma una discussione sugli squilibri globali e le aspettative della popolazione mondiale non è l’obbiettivo di questo articolo, ma era necessaria per una introduzione all’argomento sociale, che si intende trattare nella seconda parte di questo articolo.

L’effetto antropologico della pandemia e delle altre crisi.

L’effetto antropologico della pandemia, della crisi inflazionistica, della continua e crescente pressione climatica, che spinge a convertire case e uffici con enormi investimenti (il 60% dell’effetto serra è dovuto alle costruzioni), i veicoli, gli stili di vita, ha “travolto” una società europea già piuttosto in crisi, a causa della denatalità e della scarsa unità d’intenti e fini che caratterizza i paesi dell’Europa (si pensi alla Brexit, all’ondata dei sovranisti, al populismo di alcuni degli stessi leader politici e alla scarsa unità d’intenti degli altri. La “colla” europea non è ideale, sanitaria, culturale, civica. La colla europea è il denaro della BCE, prestato, investito, regalato a fondo perduto con il PNRR, il patto fiscale sul deficit/PIL, sulle pensioni, i bond verdi, la sanità, ma non è un momento collettivo di consapevolezza, di politica, di unione e di difesa, ed anzi ogni giorno dimostra di piu’ le ragioni che dividono (come sui migranti) rispetto a quelle che uniscono.
Appare abbastanza logica la “depressione” psicologica riguardo al futuro, che colpisce cittadini e imprenditori, i quali – ossessionati da queste preoccupazioni che hanno trasformato lo sterminato mondo in crescita del dopoguerra, la metropolitanità globale dei primi anni del XXI secolo, in un mondo di steccati, una nuova guerra fredda, un sistema di gruppi contrapposti destinati non solo a bloccare i consumi, ma la stessa autonomia operativa dei governi e delle imprese – sono stati colti alla sprovvista dalla rapidissima escalation bellica in Ucraina e a Gaza, la quale ha provocato divisioni, la partecipazione belligerante di paesi e macroregioni prima pensate come “alleate”, divenute oggi al piu’ soggetti neutrali e non schierati di una contesa globale per il futuro e le risorse del pianeta, la cui portata sfugge alla maggior parte degli 8 miliardi di cittadini del mondo, tra cui gli stessi italiani.
Il “Ciechi dinanzi ai presagi” del Censis riguarda soprattutto, pero’, la dimensione sociale. Dice il Censis che gli italiani “sembrano essere in preda ad una enorme sottovalutazione” di cio’ che – entro dieci anni – sarà già accaduto al nostro paese, quasi senza possibilità di rimedio: una popolazione la cui crescita netta è negativa, e in cui ogni anno vengono a mancare per morte naturale o epidemie o emigrazione due città come Treviso e Vicenza. Dove l’afflusso di profughi, migranti economici e climatici (che nessuno programma per educazione, inserimento, casa, ma a cui nessuno ormai si oppone piu’), pur raggiungendo e superando i 150.000 annui tramite i “decreti flussi”, risulta completamente insufficiente a coprire il gap occupazionale italiano, oltre a mettere in evidenza tutte le carenze formative, comportamentali, in molti casi un vero e proprio disagio psicologico del processo migratorio sgovernato.
Il declino demografico è ormai realtà di trasformazione per le città e l’economia italiane. Muoiono ogni anno in Italia circa 700.000 abitanti in media, e ne emigrano 100.000 (per il 70% laureati e diplomati, prevalentemente da Lombardia e Veneto, con figli minori al seguito), mentre nascono meno di 380.000 bambini ed entrano 150.000 immigrati, per un totale di 530-550.000 “nuovi” italiani, alcuni dei quali – tuttavia –  dovranno attendere decenni prima di esercitare i diritti.
Il saldo annuo, drammatico, del fabbisogno italiano è -250.000.
L’insufficiente disponibilità di lavoratori metterà in crisi, dice l’INPS, il sistema pensionistico nei prossimi sei-sette anni, comunque entro il 2030. Per questo, è passata nel 2023 l’idea del blocco graduale degli adeguamenti retributivi pensionistici oltre 30.000 euro annui, e l’adozione di manovre pesantemente dilatorie sui tempi di uscita: sono il sintomo inequivocabile dell’impossibilità che i nuovi posti di lavoro a minore salario e produttività possano garantire i livelli pensionistici nell’imminente futuro.
Ancora di piu’, l’Italia per far fronte alla domanda internazionale crescente dei suoi prodotti manufatturieri, ma anche per accumulare risorse e produttività idonee a rendere credibile il rinnovo dell’enorme debito pubblico, nella prospettiva di un suo futuro pagamento, maturato per 2.800 miliardi di euro, e che deve rimanere pertanto al di sopra del rating “spazzatura” BBB, e quindi essere “idoneo” all’investimento, spinge la crescita del tasso di occupazione della popolazione, richiamando al lavoro privato e pubblico sempre piu’ persone anche non giovani (il tasso di occupazione ha raggiunto il 61,8% a fine 2023 , contro 55% nel 2014) e la crescita dei posti di lavoro, che sono 23.650.000  alla fine del 2023, 600.000  in piu’ rispetto alla fine del 2019 (prima della pandemia)
Ogni anno, circa 700.000  persone vanno in pensione, e quindi il “mercato del lavoro” richiede, oltre alla loro sostituzione, anche un ulteriore incremento di 150.000 occupati, per un totale, variabile negli anni a causa delle norme pensionistiche che accelerano le uscite, di almeno 800.000-900.000 nuovi lavoratori con profili professionali di crescente preparazione e professionalità.
La “miniera” degli inoccupati si è ormai quasi esaurita: tra gli adulti che non hanno e non cercano posti di lavoro (12.500.000), 3 milioni per motivi familiari, 1 milione per salute, 4,5 milioni per studio, 2 milioni per pensionamento precedente ai 64 anni, resta un bacino di 2 milioni, pari al 20% del totale degli inattivi. E’ dubbio che possano essere avviati al lavoro.
Se sommiamo, quindi, le coorti di giovani che si affacciano al mondo del lavoro (penalizzate dalla fuga di almeno 100.000 all’estero ormai da dieci anni, rimangono in entrata non oltre 600.000 lavoratori ogni anno, 400.000 giovani e 200.000  immigrati.
C’e’ un gap effettivo di 200-250.000 persone l’anno. Lavori potenziali che non nascono, non vengono occupati, impoveriscono il sistema-paese, e allontanano nel tempo la crescita dei salari, della produttività e delle sicurezze previdenziali.
Questa è la vera ragione per cui il processo di allungamento della permanenza al lavoro riguarda indistintamente tutti, dall’industria ai servizi all’agricoltura alla pubblica amministrazione: il tentativo spasmodico e costosissimo di trattenere le persone oltre i 64 anni di età al lavoro almeno fino a 70, limitando l’esodo e coprendo con abbondanti flussi di migranti, parte legali (150.000 l’anno, purtroppo quasi sempre ex-post, come presa d’atto di una situazione e non come una programmazione) e parte illegali (almeno altri 80-100.000 l’anno, in un processo di continuo spostamento dei giovani laureati meridionali al nord per sostituire gli expat, e di turnover di fuga dei migranti verso il nord Europa per i salari e i servizi piu’ gratificanti).
Emergono a questo punto almeno due considerazioni: 1) è indispensabile che l’Italia, nel suo complesso, capisca che senza giovani, senza laureati, senza lavoratori, e portando al lavoro sempre piu’ quarantenni e cinquantenni e trattenendo gli ultrasessantenni, il sistema occupazionale subirà traumi insostenibili: la pressione sui salari, il fenomeno dell’abbandono per dimissioni, la richiesta di smart working, sono tutti segnali che l’offerta di lavoro è ormai molto superiore alla domanda di lavoro, è disallineata, mancano professionisti e lavoratori in aree chiave come le discipline STEM, e su obbiettivi chiave come la digitalizzazione, rischiando di mettere in discussione il ruolo e la posizione dell’economia italiana nel mondo. 2) è assolutamente necessario che il sistema pubblico – lo Stato e le Regioni – attui un programma strategico, prima per la programmazione dei flussi, l’inserimento e la formazione dei migranti, e successivamente una pianificazione tale da richiamare immigrati preparati che con sforzo relativo siano inseribili nel flusso della produzione nazionale: per questo occorrono case, integrazione del reddito, servizi sociali, riconversione delle scuole, orientamento alla formazione e al lavoro, collocamento, e rigore nel rispetto di leggi e regole, oltre che dei diritti.  Si tratta di un rovesciamento completo della concezione non-interventista attuata dai governi nazionali negli ultimi vent’anni, che muove dall’implicito riconoscimento che l’equilibrio del sistema economico e del welfare dipende prima di tutto dalla garanzia del turnover lavorativo nelle industrie, nei campi, nei servizi e nelle pubbliche amministrazioni, a partire dalla sanità e dal sociale.
Alcuni segnali di questo cambiamento sono già evidenti: le università italiane stanno attraendo studenti stranieri e non solo europei, anche da paesi piu’ poveri africani o sudamericani. Il governo ha intrapreso iniziative volte a fornire aiuti strategici ai paesi del mediterraneo per “preparare e razionalizzare” l’immigrazione: una di queste misure è rappresentata dalla sperimentazione avviata con il governo albanese per la realizzazione di centri di filtraggio e preparazione dell’immigrazione. Ma resta da fare moltissimo, soprattutto per la necessità di selezionare, formare, reclutare e inserire interi nuclei familiari e portatori di competenze specifiche che vanno necessariamente raccordate tra le aspettative dei singoli e quelle delle famiglie, delle imprese e del mondo economico.
Non basta rafforzare, come si è fatto, con notevoli costi a carico dello Stato, l’apparato repressivo e preventivo dell’ordine pubblico. Occorre investire rapidamente su educazione, formazione professionale, sanità, welfare, casa, evitando i processi di iper-urbanizzazione degli immigrati nelle metropoli, e fornendo – o aiutandone attivamente reclutamento, formazione e inserimento – al sistema produttivo diffuso delle professionalità idonee per la manifattura, l’edilizia, i servizi, che oggi in gran parte sono reclutate tramite un magmatico mondo di agenzie interinali, canali territoriali e solidaristici, privo di caratteristiche “basilari” come la motivazione, la qualità, l’etica del lavoro, l’educazione sociale, l’inserimento graduale dei lavoratori, la ricerca di equilibri familiari – e in questi casi anche generazionali – da parte dei migranti.
Torniamo ora alla preoccupazione del Censis: “ciechi dinanzi a presagi”. E’ possibile ritenere esagerata questa affermazione? A mio avviso per niente. L’Italia sembra addormentata, ma il declino demografico in atto è drammatico, e fa vedere già oggi i propri effetti piu’ deteriori. La mancanza di giovani riduce le opportunità di ricambio e di successo per le piccole imprese, la creatività, la crexcita della produttività. Mancano ingegneri gestionali, professioni tecniche, periti, geometri, tecnici di ogni competenza. Nella maggior parte dei casi risulta impossibile sostituirli con i migranti, ai quali nella migliore delle ipotesi possono essere assegnati compiti di manovalanza edile, industriale, manifatturiera, con enormi costi organizzativi e formativi, dovendo provvedere spesso anche all’individuazione di abitazioni, sistemazioni per la famiglia, collocamento scolastico e inserimento sociale.
Molte imprese dei sistemi Confindustria, Confartigianato e Commercio si sono associate per introdurre economici e razionali processi di reclutamento e inserimento. Enorme è il lavoro svolto dalle agenzie e società di lavoro interinale, che assicurando flessibilità, introducono pero’ una curva estremamente speculativa nel collocamento del lavoro stagionale e occasionale, elevando il costo salariale del 15-20% in un sistema già caratterizzato da una grande competizione europea e internazionale.
Le imprese si dividono in due grandi famiglie: quelle con elevata produttività, che sono in grado di mettere a disposizione servizi sociali, individuare supporti educativi, abitativi e di welfare, aumentare i salari con la produttività detassata, in qualche caso addirittura ridurre la settimana lavorativa. Altre, maggiormente esposte alla competizione economica portata dai paesi emergenti, dal commercio elettronico e dalla globalizzazione, si trovano in difficoltà a garantire questi traguardi. Crescenti sono le difficoltà, anche all’interno delle stesse associazioni di categoria, a fare convivere entrambe queste istanze. Chi deroga o addirittura negozia contratti aziendali di lavoro generosi per assicurarsi la produttività aziendale viene spesso in collisione con le imprese che preferiscono non fare troppa innovazione, e mantenere livelli salariali e organizzazioni vetuste, nell’erronea convinzione che “la nottata passerà” e che – soprattutto in relazione all’imminente rallentamento economico previsto per il primo semestre del 2024 – la domanda di lavoro, intesa come disponibilità di nuovi lavoratori, tornerà a crescere, e che ci sarà disponibile un “esercito di riserva” di lavoratori impiegabili a condizioni migliorative rispetto alle attuali.
Si tratta di una chimera: questo fenomeno è già avvenuto dopo la pandemia, nel 2021 e 2022 e 2023, ed ha generato quel fenomeno chiamato “ondata di dimissioni”, legato principalmente alla ricerca, da parte dei lavoratori piu’ giovani, di un assetto di lavoro – nell’immaginario collettivo – piu’ rapportato alle esigenze familiari e personali.
In altre parole, il lavoratore impossibilitato a trovare imprese capaci di raddoppiare lo stipendio a parità di livello professionale, ed impossibilitato a migrare all’estero in Europa in Germania, Olanda, Francia e Svizzera dove gli stipendi sono superiori per motivi territoriali, familiari, di scelta personale, preferisce entrare in una zona grigia di lavoro a part time o autonomo, per incrementare gli introiti e ridurre la pressione del datore di lavoro.
Analizziamo prima di tutto il declino demografico: nella fase finale di approvazione della Finanziaria 2024, la maggioranza ha destinato circa 1,6 miliardi alla lotta alla denatalità, dopo avere varato numerose innovazioni in termini di permessi parentali e soprattutto di assegno unico e premialità oltre il primo figlio.
Ancora troppo poco: i nuovi nati ogni anno, pari a 393.000 nel 2022, scenderanno a 330.000 nel 2050. Non si tratta già piu’ della bassa natalità, per la quale l’Italia ha le percentuali piu’ ridotte del mondo: 1,24 nascite   per donna nel 2020 (Giappone 1,34, Germania 1,53, Francia 1,83, Israele 2,90), ma della riduzione assoluta del numero di donne in età feconda (15-49 anni) che già oggi sono 11.600.000, e saranno solo 9.000.000 nel 2050.
Quando si affronta questo problema, spesso si sente dire che – in fin dei conti – nel mondo vi sono 8 miliardi di abitanti, che sono raddoppiati dal 1960, in soli 60 anni. Si dice anche che la popolazione globale sta evidenziando una lenta tendenza alla riduzione della crescita, che dovrebbe portare entro il 2100 ad un picco di 10 miliardi, per poi lasciare spazio a stabilità o lento declino, a causa delle crisi climatiche, della sovrappopolazione e dell’invecchiamento.
Ma non si dice che – in un paese come l’Italia che presenta indubbie differenze rispetto ai paesi emergenti e rispetto alla stessa Europa e Stati Uniti – il ricambio nel sistema produttivo ed economico tra cittadini nati ed educati nel contesto sociale nazionale e migranti non puo’ avvenire semplicemente e automaticamente, senza procurare traumi pesanti in termini di produttività, qualità del lavoro, qualità dei prodotti finali. Prodotti di qualità elevata, realizzati in piccole e medie imprese, non possono essere realizzati da persone nate ed educate in sistemi sociali ed economici rurali, primitivi, isolati e socialmente differenti, con valori diversi e riferimenti culturali diversi. Strutture organizzative complesse e relazioni sociali articolate non possono rimanere attive senza un ricambio naturale tra persone educate nel medesimo ambiente.
La conseguenza della riduzione delle coorti in entrata al lavoro è la riduzione della disponibilità di lavoratori adeguamente formati, che vengono con difficoltà sostituiti da un flusso di immigrati non formati, e insufficiente a reggere il superamento della generazione “boomer”, attualmente alla soglia della pensione. I numeri sono impressionanti: tra il 2023 e il 2050 la popolazione giovane italiana fino a 64 anni diminuirà da 45 milioni a 35 milioni (-20,3%): dieci milioni in meno di persone impegnate nel mondo del lavoro e delle professioni. Nello stesso periodo, le famiglie unipersonali cresceranno da 8,4 milioni a 10 milioni nel 2040, il 60% costituito da anziani, 6.000.000 su 17 milioni oltre 65 anni, ma chi li assistera’?

L’anello debole: il settore sociale e sanitario.

Questo fenomeno sta assumendo, nel settore sociale e sanitario, aspetti parossistici.
E’ facilmente intuibile che il lavoro nei settori manifatturiero, servizi, turismo, edilizia e impiantistica sia, per natura, piu’ attrattivo sia per italiani che per i migranti: orari abbastanza definiti, remunerazione dello straordinario, premialità prevalentemente esentasse o al “nero”, elementi accessori come benefit, polizze sanitarie, anche case in affitto o auto aziendali, rendono il lavoro nel privato di molto piu’ ricercato e gradito rispetto al settore sociale e sanitario, specie se pubblico.
Diventa, cosi’, sempre piu’ evidente il sopraggiungere di una situazione di emergenza del settore sociale e sanitario. E cio’, nonostante l’ammirevole tentativo di agevolare l’ingresso di migranti provenienti da paesi del Sudamerica e dell’Africa già in possesso di nozioni basilari.
Parlo in generale di tutto il sistema che va dal volontariato sanitario e ospedaliero, all’impiego sanitario diretto nel pubblico o nelle cooperative, nelle case di riposo, nell’assistenza domiciliare ULSS, le professioni mediche, gli infermieri, gli OSS, le badanti o “caregiver familiari”, che sono attualmente 1,2 milioni impiegate, e almeno altri 2 milioni familiari assistenti.
Molti di questi, nei prossimi anni, saranno irresistibilmente attratti dall’offerta di lavoro dei settori privato e pubblico, salari relativamente abbondanti, condizioni di lavoro e di vita allettanti, relazioni sociali che vanno oltre il “ristretto orizzonte” del caregiving familiare.
E cio’, mentre viceversa gli anziani ultrasessantacinquenni aumenteranno: sono già oggi piu’ di 14 milioni (2023) e diventeranno 20 milioni entro il 2040.
Si calcola che su 15.000.000 di malati cronici in totale in Italia, il 59% dei 14 milioni di anziani oltre 65 anni (8.400.000) abbiano una o piu’ patologia cronica invalidante: 1° ipertensione, 2° artrosi/artrite, 3° osteoporosi, 4° diabete, 5° malattie cardiache. Secondo l’Istituto Superiore di Sanita’, tra gli anziani almeno 5.000.000 hanno due o piu’ patologie croniche (Fonte, ISS – 2022), e almeno la metà di questi hanno difficoltà e disabilità tali da impedirgli di muoversi e vivere senza assistenza diretta. Si tratta di un vero e proprio allarme sociale, considerando il numero delle persone coinvolte. Secondo la SDA Bocconi, su una popolazione totale di quasi 59 milioni, le persone over65 sono 14 milioni (Istat 2021), di queste 3.935.982 sono non autosufficienti, quindi richiedono assistenza diretta e presente.
A ciò si deve aggiungere, purtroppo, che le persone con livello di istruzione piu’ basso soffrono piu’ frequentemente di patologie croniche, in quanto il maggiore livello educativo facilita comportamenti precauzionali, diverso stile di vita, e quindi un impatto inferiore anche del 25% in meno di malati cronici (dal 56% al 46% per classi di educazione a parità di eta’).
L’ invecchiamento della popolazione è l’incubo di ogni demografo e programmatore politico-economico nel mondo occidentale, oggi, e non solo: anche in Cina, Corea del Sud, Giappone si stanno realizzando gli stessi fenomeni. Gia’ oggi – nel contesto sociale moderno in continua evoluzione – sono a rischio di isolamento sociale il 15,3% degli anziani italiani (oltre 2.200.000): il 76% – 1.700.000 – afferma che in una settimana normale non partecipa a nessun tipo di attività sociale aggregativa (centro anziani, parrocchia, circoli o associazioni culturali) e il 16,1% – 350.000 – non incontra né parla al telefono con nessuno.
Il 26% degli anziani (quasi 4.000.000) riceve aiuto da familiari non conviventi e 6.000.000  hanno aiutato economicamente figli, nipoti o altri familiari, ma frequentemente tale aiuto non viene ricambiato.
Non si tratta piu’ dell’avanzata età del pensionamento o di insufficiente reddito, ma di mancanza sostanziale di persone disponibili per assicurare assistenza agli anziani: medici, infermieri, fisioterapisti, OSS, caregiver accompagnatori, compagnia, badanti.
Soprattutto per quanto riguarda i caregiver, mano a mano che le persone allontanano la pensione ad età successive (65-67-69) o rientrano nel mercato del lavoro a 45-55 anni, si verifica una progressiva e rapidissima, ora, riduzione numerica delle persone libere dai 50 ai 60 per l’assistenza ai familiari. Parallelamente, si assiste ad una netta riduzione del numero di badanti, a causa dei salari troppo ridotti rispetto al resto d’Europa. Erano quasi due milioni 10 anni fa, oggi sono 1.120.000 piu’ un certo numero di irregolari non riconoscibili e difficilmente quantificabili: si verifica spesso anche la sostituzione dei documenti e l’attività domiciliare in nero di persone sostituite, con inevitabili problemi di sicurezza personale e patrimoniale per gli anziani. Ma le famiglie, impossibilitate a verificare e poco assistite in questo campo, sono ridotte ad accettare soluzioni inaccettabili, dettate dalle esigenze lavorative, di reddito, di mobilità. Pochissimi degli anziani di oggi è stato educato ai problemi di anzianità, e grava su famiglie che, per separazioni, dimensione, scarsità di figli e tempo libero, già comporta fragilità insormontabili.
Nel frattempo, la riduzione della disponibilità di mano d’opera e l’inflazione hanno reso proibitivi i costi delle rette RSA e Case di Riposo. Scandalosamente, le risorse del PNRR sono state destinate solo ad imprese, sanità e pubbliche amministrazioni locali, “tagliando” di netto tutte le strutture assistenziali storiche e convertite (Opere di Assistenza e Beneficenza, Fondazioni) che necessitano invece di ingenti investimenti per la realizzazione di nuove strutture di ricovero e cura atte a far fronte all’incremento della popolazione anziana. Queste ultime vengono percio’ realizzate con il ricorso al credito bancario (con tassi attualmente elevati, sopra il 5%) o tramite la cartolarizzazione delle convenzioni con le Regioni (i posti letto autorizzati in convenzione). Ma per garantire la realizzazione di un numero adeguato di posti in case di riposo, a costi edilizi crescenti, soprattutto per fare fronte alla gravissima situazione di disagio creata dall’aumento degli ultraottantenni, frequentemente malati di Alzheimer in vari stati o demenza senile, sono indispensabili fondi europei o nazionali a fondo perduto, di grande consistenza, nell’ordine di decine di miliardi di euro nei prossimi dieci anni.
Sono state finanziate dal PNRR, invece, le case di comunità della sanità – strutture indubbiamente necessarie, ma dal problematico avvio in quanto risulteranno pronte quando mancherà addirittura il personale sanitario (medici e infermieri), che già è insufficiente negli ospedali, e saranno quindi difficili da aprire e mantenere aperte con standard produttivi idonei a ridurre la pressione sugli ospedali delle ULSS.
Tra il 2023 e il 2050 gli anziani oltre 65 anni aumenteranno del +32,3% e quelli oltre 85 del 71,7% (da 2,3 a 3,9 milioni), questi ultimi a rischio Alzheimer e demenza senile, e quindi bisognosi nella gran parte dei casi di assistenza 24 ore su 24.
Oltre gli 85 anni, in presenza di piu’ patologie, l’assistenza domiciliare diventa impossibile: il costo di due o piu’ badanti piu’ i familiari per assicurare l’assistenza supera del doppio il costo di mantenimento del posto in RSA protetta.
Come conseguenza dell’invecchiamento della popolazione, la spesa sanitaria aumenta. Nel 2050 (in assenza di calcolo inflazionistico) ammonterà a 177 miliardi di euro del 2023, contro gli attuali 131 miliardi (+35%), ma quella per gli anziani aumenterà del 78% e quella per gli over 80 del 115%
Il 74% dei cittadini ritiene che l’INPS non potrà pagare le pensioni e il 70% ritiene che la sanità pubblica non riuscirà piu’ a curare tutti.
Oggi, il 70% dei caregiver sono mogli o figlie, affiancate da circa 1.120.000 di badanti, che comportano (al netto di extra)una spesa variabile tra 1.200 e 1.400  euro al mese, ritenuta sostenibile solo da 1/3 delle famiglie.
Oggi nelle famiglie si puo’ contare su 1,1 persona disponibile di 45-60 per ogni anziano, nel 2040 il dato sara’ pari a 0,6, perché molti nel frattempo saranno invecchiati a loro volta, o saranno impegnati al lavoro in un contesto caratterizzato da maggiore tasso di occupazione, come in Francia o Germania. In tale situazione, disporre della metà dei caregiver per una popolazione anziana di 17.000.000 di anziani, rapportandola ai bisognosi di assistenza (20%) uguale a 3.000.000, risulteranno disponibili solo 1.000.000 di 45-60enni, mentre il numero di badanti dovrebbe almeno raddoppiare se non triplicare (da un milione a tre milioni). Dove sara’ possibile trovare caregiver, badanti, OSS e personale sanitario per l’assistenza domiciliare con adeguata preparazione, attenzione e soddisfazione economica?Secondo la CISL, nel triennio 2023-2025 il solo comparto del lavoro domestico in Italia avrà bisogno di una manodopera straniera aggiuntiva che oscilla tra i 74.000 e gli 89.000 lavoratori, ipotesi massima, che tiene conto anche della fuoriuscita dal mercato dei lavoratori domestici stranieri che nel frattempo raggiungeranno l’età pensionabile), per una media di 25/30.000 nuovi inserimenti annui. Di questi, i non comunitari sarebbero tra i 57.000 e 68.000, per una media annua di 19/25.000 nuovi inserimenti).
Sulla base degli ultimi dati disponibili (giugno 2023), sempre elaborati dalla SDA Bocconi, le badanti sono circa 1,12 milioni, per il 91% donne e per il 70% straniere.
Nel nostro Paese il numero di badanti supera quello del personale sanitario: 617.466 (Agenas 2020). Occorrono, a nostro avviso, tra 50 e 60.000 badanti l’anno  in piu’ fino al 2040: i numeri non possono essere troppo stretti, per evitare strozzature e la mancanza di soluzioni per le famiglie.
Come per le altre professioni di assistenza, occorre prestare attenzione anche ai costi. Dal 1° gennaio 2023 è entrato in vigore il nuovo aumento per gli stipendi di Colf, baby sitter e Badanti, che sono cresciuti del 9,2%.  
Per la badante convivente a tempo pieno la paga base passa da 1.026 € al mese a 1.120,76 €, cui vanno aggiunti contributi, tredicesima, Tfr, pasti, ferie. Il costo per la famiglia può arrivare a 125€ al mese in più. Per una babysitter di un bambino sotto i sei anni (a tempo pieno, non convivente) che lavora 40 ore a settimana i costi passano da 1.234 € a 1.348€ (1.743 euro annui in più). 
Questa situazione genera due rischi: quello di aumento del lavoro nero e quello di povertà per le famiglie che impiegano le badanti, e che hanno a loro volta bisogno di assistenza. Ad esempio, la detraibilità del costo delle badanti dal reddito riveste priorità assoluta per garantire la copertura alle famiglie, almeno per il periodo iniziale dell’assistenza, dai 70 agli 85 anni. Poi, anche se non sempre, subentra il rischio concreto della disabilità cronica, e con esso la necessità di accedere a residenze sanitarie assistenziali.
Per quanto riguarda i volontari sanitari (ospedalieri, sanitari, ambulanze, accompagnamento), una più recente ricerca dell’INAPP pubblicata nel 2019, e relativa a dati 2018, riporta un numero totale di addetti nel settore socio-sanitario di 954.240 di cui circa 450.000 (47,6%) occupati e circa 500.000 (52,4%) volontari (-15% rispetto al 2015).
Per quanto riguarda gli OSS, in base ai dati del Ministero della Salute, il numero attuale degli occupati potrebbe aggirarsi intorno a 400.000 operatori socio sanitari. A seconda delle fonti, si stima che ci siano tra 350.000 e 600.000 operatori socio sanitari nel Paese.
Per quanto riguarda il fabbisogno sanitario (il personale è passato da 682.000 a 670.000 tra il 2011 e il 2021; gap al 2022: 20.000 sanitari) entro il 2027 ne andranno in pensione 53.000 e ne servono 120.000 (+70.000) per un totale 670.000+70.000= 740.000 (+11%).
Si puo’ pensare di ricorrere ad un insieme di interventi:

  • Ospitalità diurna in centri specializzati, ma servono investimenti e personale specializzato;
  • Attività intensa di educazione e prevenzione;
  • Telemedicina e telediagnosi;
  • Assistenza domiciliare;
  • Organizzazione, con ingenti investimenti in personale, di case di comunità con medici e sanitari dislocati nel territorio.

Maggiori e piu’ dettagliate informazioni sul tema sono rintracciabili qui.

Ho introdotto il richiamo al volontariato perché nessuna società moderna puo’ pensare di risolvere questo problema solo tramite la creazione di posti di lavoro da 36 ore la settimana. La questione dell’assistenza agli anziani e – in tale ambito – ai malati cronici e ai disabili, puo’ essere affrontata esclusivamente tramite il ricorso a organizzazioni che impieghino dipendenti e volontari, iscritte al RUNTS, e tra loro primariamente le Organizzazioni di Volontariato o le Organizzazioni Non Lucrative.
Si tratta di “arricchire” la missione di queste organizzazioni con valori che vadano oltre il c.d. giuramento di Ippocrate: c’e’ un aspetto di missione, di comunità, di cooperazione e di reciprocità che va costruito, coltivato, promosso, e che costituisce l’unico strumento valido alternativo allo statalismo e al “posto di lavoro” che risulta spesso inadeguato a rispondere a bisogni personali che travalicano ampiamente i recinti dell’orario di lavoro e di rapporti sociali istituzionali o impersonali. Si tratta di una suggestione sulla quale sarà indispensabile tornare rapidamente, in quanto solo la nascita di nuove realtà e la promozione di quelle esistenti potrà sopperire con efficacia e rapidità alle impellenti esigenze sociali collegate alla crescita del numero e della morbilità delle coorti di anziani.
Per trarre alcune conclusioni, non definitive, il Censis ha quindi ben ragione di richiamarsi alla “cecità dinanzi ai presagi”. L’attuale situazione è reale, è ben piu’ di un presagio. E’ lo spazio assegnato nei media a questi problemi ad essere insufficiente, spesso frutto di rimozione da parte della stampa, dei giornalisti stessi, della mentalità giovanilistica e rampante e consumistica della società italiana.
In questa società, dirsi “vecchi” e’ percepito come una diminuzione, i problemi delle famiglie vengono tenuti nascosti o enunciati come “problemi di categoria”, privi di coniugazione personale.
Oggi, spesso, una famiglia che incontra problemi con anziani soli o nelle prime fasi dell’Alzheimer o della demenza, fa i conti con costi esorbitanti di badanti, scarsa assistenza medica, assenza di risposte adeguate, filtraggio sistematico delle situazioni di disagio per mancanza di posti o di disponibilità economiche.
E quel che è peggio, è che questo fenomeno riguarda anche i portatori di disabilità piu’ giovani per malattie, infortunio, problemi genetici o patologie, e le stesse famiglie che li assistono.
E’ sicuramente opportuno che il processo di individuazione di una garanzia di copertura socio-sanitaria sia accompagnata da una accurata analisi delle disponibilità e delle esigenze dell’anziano, ma l’assenza di assistenza, la solitudine, la malattia e la morte (a volte da soli, e scoperta dopo settimane) non puo’ diventare affare ordinario accettato nella società italiana.
Non si lavora una vita per perdere ogni garanzia al venire meno dell’utilità economica. Non si vive una esperienza di vita sociale e lavorativa per rimanere soli e isolati, privi di ogni assistenza, negli ultimi anni.

A queste urgenti domande, quella parte della società italiana che ancora è consapevole della dimensione delle problematiche e delle risorse indispensabili per rispondervi in termini di infrastrutture, risorse economiche, educazione, prevenzione, assistenza, accompagnamento, solidarietà e pietà, deve dare al piu’ presto una risposta collettiva e comune delle professioni, della politica, dell’economia, del terzo settore e delle comunità locali.

Dott. Amedeo Levorato, 31 dicembre 2023

Post Scriptum

Di questo complicato argomento ricordo ora che mi occupai, con il Ministro della Sanita’ Maria Pia Garavaglia, durante il governo di C.A. Ciampi, nel 1993-1994, or sono 30 anni, in qualita’ di componente della Commissione ministeriale governativa per la Valutazione della Spesa Sanitaria. Allora era un problema gestibile, se solo si fosse compresa l’esplosione dei problemi di anziani e INPS, e la forza inarrestabile del declino demografico. Il tema e’ ampiamente trattato nel libro del Mulino, Bologna, 1994, “I Costi della Vecchiaia”, scritto con Renzo Rozzini e il prof. Marco Trabucchi.


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2 risposte a “Ciechi dinanzi ai presagi”

  1. Avatar Paolo Giaretta
    Paolo Giaretta

    un saggio importante, corredato da numeri ed elementi conoscitivi. Merita una ampia diffusione tra i gruppi dirigenti in particolare, per le proposte che contiene

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  2. Avatar DINO BERTOCCO

    Questo Documento è il più bel regalo che ho ricevuto per il 2024, per una molteplicità di ragioni. Te ne accenno solo due: 1. mi ‘abbuona’ un tempo cospicuo che stavo dedicando alla raccolta e sistematizzazione dei dati che tu illustri in quantità e qualità; 2. mi offre un quadro conoscitivo dal quale partire per innestare la riflessione e le schede di lavoro sulle questioni da te esaminate con lucidità e precisione.
    Ora però viene il bello ed il faticoso, ovvero l’opportunità e la necessità di far diventare il testo una base da divulgare e discutere tra tutti coloro che sono vigili, mantengono gli occhi aperti e sono disponibili a mobilitarsi. Grazie ed a presto!

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